mercoledì 13 maggio 2020

(493) Sparklehorse - Cow

Anno: 1995
Album: Vivadixiesubmarinetransmissionplot



Il mio ricordo personale di Mark Linkous è un istante di un suo concerto milanese forse nel '97 o '98. Aveva affrontato l'intero live con un'introversione imperscrutabile a metà fra la timidezza e la sfrontatezza, ripiegato fra il cappello stetson e la chitarra elettrica. Poi, durante Homecoming Queen, altrettanto timidamente il pubblico aveva accennato il chorus. Linkous, in quel momento, aveva alzato la testa e rivolto uno sguardo quasi sorpreso davanti a sè. Poi aveva sorriso.
Di certo il musicista della Virginia non era un tipo facile. Aveva passato un'infanzia in mezzo ai minatori di carbone, cresciuto dai nonni. Poi era scappato a New York dove aveva iniziato a suonare senza però sfondare. E poi di nuovo giù in Virginia, dove aveva dato vita agli Sparklhorse, che poi era nient'altro che la proiezione di sè stesso,e dei suoi fantasmi. 
L'album dal titolo volutamente impronunciabile con cui aveva esordito aveva silenziosamente rapito il cuore di molti. Era musica vecchia e nuovissima allo stesso tempo: suonata con lo stesso armamentario elettrico delle band alt-country, ma più franta e sofferta, irregolare e disturbata. Canzoni gentili ma piene di cicatrici in faccia, infestate di testi spettrali ma anche di una spiazzante tenerezza, meste e pure terribilmente vitali, folk ante-dylaniano e indie punk alternati e fusi insieme. 
Cow è una lunga ballata campestre che rappresenta bene la folle contraddittorietà della scrittura di Linkous. La melodia è di una dolcezza totale, con la fisarmonica e il banjo sfiorati e poi a poco a poco conquistati dall'inquietudine distorta della chitarra. Le liriche - come spesso accade nei pezzi di Sparklehorse - sembrano cantare le lodi di una bella ragazza che munge una mucca (ma quando si è vista una cosa simile in una band indie?) ma poi sprofondano in un incubo di sedie elettriche scintillanti e serpenti che si mangiano la coda. 
Il resto della carriera di Mark Linkous è stata un misto di grandi soddisfazioni di critica e drammi personali, che hanno lentamente ma inesorabilmente sfinito i nervi di un musicista che per tutta la vita aveva flirtato con la depressione, l'alcolismo e la droga. Il suicidio avvenuto nel 2010 è stata una fine tragica e in fondo un po' annunciata.  
Restano la sua indiscussa grandezza, il suo genio inafferrabile (forse persino per lui) e la sua unicità. E quel sorriso triste dietro gli occhiali neri. 

mercoledì 15 aprile 2020

(494) Guided By Voices - Game Of Pricks

Anno: 1995
 Album: Alien Lanes



Poche band sono state capaci di essere geniali e insopportabili come i Guided By Voices. Fin da quando Robert Pollard e compagni hanno mosso i primi passi a Dayton in Ohio, intorno alla metà degli anni Ottanta, hanno costruito uno stile personale che si evidenziava per la brevità quasi insolente e più che punk delle canzoni ed era esplosivo soprattutto dal vivo.
Nessuno dei cinque Guided By Voices avea doti da virtuoso, anzi, e l'unico che poteva spiccare davvero era il guascone e talentuoso leader Pollard, autore della quasi totalità dei pezzi e protagonista sul palco di spacconate alcoliche e roteamenti di microfono che neanche Roger Daltrey ai tempi d'oro. Gli altri - il chitarrista Mitch Mitchell su tutti, mai visto suonare senza una sigaretta a penzolare dalle labbra - stavano sullo sfondo con ritmiche semplici e i distorsori ben aperti. 
Alien Lanes è il tipico album dei GBV: 28 canzoni, metà delle quali sono poco più che mozziconi, registrate con un budget di una decina di dollari (escluse le birre, hanno raccontato quelli della Matador, che aveva il coraggio di pubblicarli), piene di rumori di fondo ed errori voluti ed esibiti, a tratti (istanti, considerando che oltre il minuto raramente la band si dilungava) di pura folle bellezza, ricche di memorie (dal surf all'hard rock, dai Big Star ai REM, dai Joy Division ai Pixies) stratificate l'una sull'altra in quel disordinato magazzino che era il songwriting di Pollard.
Più o meno a metà c'è anche Game Of Pricks, che è uno di quei preziosi momenti in cui nell'obliquo sferragliare dei GBV sembra che ogni elemento disturbante sia messo a tacere ed emerga invece la essenziale forza vitale delle loro esibizioni live. Qui la scrittura di Robert Pollard è realmente al suo meglio e la semplicità formidabile del guitar pop da garage di periferia della band è talmente cristallina e pregnante nella sua imperfezione da avere modellato, con i suoi pochi accordi e la sua onesta circolarità, decine di gruppi indie che hanno popolato i Novanta.

lunedì 6 aprile 2020

(495) The New Pornographers - The Bleeding Heart Show

Anno: 2005
Album: Twin Cinema



Creatura strana i New Pornographers. Amati e odiati parimenti dalla critica. Quasi sempre ignorati dal pubblico, pur meritando una attenzione almeno tripla rispetto a quella che hanno ottenuto nella loro lunga carriera. "La" band (una della band in verità) di quel geniale songwriter che è AC Newman. O piuttosto un specie di comune con Newman al centro, una serie di formidabili musicisti attorno, e la personalità vocale di Neko Case a dare una dimensione defintia ad un progetto che ha sempre avuto confini poco certi. 
I puristi dell'indie li hanno sempre definiti power pop. I puristi del power pop hanno sempre dichiarato che non lo erano, qualsiasi cosa sia il power pop. E poi Neko Case è una cantante alt-country. E in fondo gli album dei canadesi sono sempre stati come quella vasca di legno che conteneva i cd in offerta nei vecchi negozi di dischi: potevi tirare su letteralmente di tutto.
Bene. The Bleeding Heart Show rappresenta il frullatore dei New Pornographers alla massima potenza possibile. C'è alla base una ballad essenzialmente folk e sostanzialmente mesta, voce (di Newman) acustica pianoforte, che ciondola tra un misto di cupa serietà e di energia trattenuta per più di un minuto. Poi è come una porta che si apre lentamente mentre gli strumenti entrano poco alla volta: la batteria, risoluta, dei synth discreti, un accordion che ondeggia una melodia quasi straniante,  e la voce di Neko che accende la luce nella stanza... Poi, da 2:10, uno dei crescendo più straordinari della storia del rock. Una specie di polifonia semplice e inesorabile, con delle memorie africane (possibile? sì, siamo in casa Ac Newman) e un impianto country (possibile? sì, siamo in mano ai poteri vocali prodigiosi di Neko Case). Con la batteria di Kurt Dahle che rimbalza geometrica da una parte all'altra e spinge l'intera band in un'accelerazione a perdifiato. Tanto che si dimentica tutto: che siamo dentro una canzone su una relazione finita, che siamo davanti a un gruppo indie rock o power pop o quel che è, che prima o poi la porta si deve richiudere e la luce si deve spegnere. The Bleeding Heart Show, signore e signori...

venerdì 3 aprile 2020

(496) Belle and Sebastian - A Century Of Fakers

Anno: 1997
EP: 3 6 9 Seconds Of Light





A Century Of Fakers non è la canzone più memorabile dei Belle & Sebastian. Eppure capita che ci siano canzoni che oggettivamente non siano gran chè e che soggettivamente ti smuovano qualcosa dentro.
Nel 1997 la band di Stuart Murdoch aveva già all'attivo due album - il seminale, programmaticamente naif Tigermilk, e il più rifinito If You're Feeling Sinister.  Poco convinto della produzione troppo precisa dell'ultimo lavoro, Murdoch aveva optato per un ritorno alle origini e decretato che tutto quello che avrebbe registrato in quell'anno avrebbe avuto un suono quanto più possibile live. Per farlo, è cosa arcinota nela biografia dei B&S, l'intero gruppo si era trasferito armi e bagagli in una chiesa sconsacrata della natia Glasgow e lì erano nati tre EP usciti di seguito. 
A Century Of Fakers è il pezzo apripista dell'ultimo EP, uscito appena prima dell'album capolavoro, The Boy With The Arab Strap, che era già in gestazione in quel torno di mesi. Mesi evidentemente in cui il gruppo stava davvero ingranando, non tanto a livello di popolarità, quanto proprio a livello musicale, trovando a poco a poco una convergenza miracolosa tra la spontaneità twee degli esordi e un songwriting più eclettico e rotondo.
In tutto il processo di crescita della band, A Century Of Fakers non suona certo come il prezioso anello mancante: è una canzone "prima maniera" concepita in un momento in cui la "prima maniera" ormai era stata un po' lasciata indietro. La melodia è splendida, certo, e gentilmente atemporale come ogni frutto della penna di Murdoch in quegli anni. Le liriche sono stralunate, impenetrabili e geniali come sempre, con questi squarci di umanesimo tra l'evangelico e il socialista. La partitura poi è quella dei B&S dei tempi d'oro, sapientemente sulla soglia della stonatura, con le pigre chitarre jangly, il violino e il violoncello a punteggiare, la voce (qui) un po' piatta di Murdoch che viene impreziosita dai cori di Stevie Jackson e Isobel Campbell. 
Già, Isobel Campbell. Che in questo video, che all'epoca passò forse un paio di volte a notte fonda su MTV - l'indie del 1997 non contemplava l'assenza totale di spigoli e la malinconica nostalgia della band di Glasgow - si aggira luminosa e angelica in una rappresentazione post post nouvelle vague che è un po' il manifesto visivo dei B&S. Isobel Campbell è stata la chiave di volta della band. Quando se n'è andata, nulla è stato più lo stesso. E un po' a A Century Of Fakers mi pare che racconti proprio questo: un momento di grazia, il gruppo nella sua perfezione (li vedete comparire tutti insieme a 3:53, per un attimo), una di quelle foto di famiglia leggermente ingiallite dal tempo che hanno il potere di spalancare mondi.

lunedì 23 marzo 2020

(497) The Field Mice - Emma's House

EP: Emma's House 
Anno: 1988



Quante chitarre ci sono, da sempre, appoggiate di fianco al letto nell'ordinato disordine di tante camerette adolescenziali? Quante canzoni sono state scritte in quelle quattro mura? E quante addirittura registrate lì dentro, con strumentazioni di fortuna? Qualcuno ha coniato la definizione bedroom pop, ed è diventato quasi un genere. I canoni? Semplicità esibita, livelli di strumenti e voci sballati, un'idea di spontaneità più o meno sfrontata.
Certo, non sempre funziona. Ci vuole prima di tutto la canzone. Se c'è quella, puoi riempirla o svuotarla come vuoi, ma funziona sia registrata in salotto che agli Abby Roads. 
Prendete Emma's House dei Field Mice. Robert Wratten e Michael Hiscock, due ventenni della periferia londinese, l'hanno concepita così sullo scorcio degli anni '80: strimpellando una chitarra acustica e una elettrica (Robert), un basso (Michael) e una drum machine, inseguendo una linea melodica di malinconica luminosità, quietamente circolare come l'alternarsi pigro dei giorni in un decoroso grigio suburbio inglese, e cantando liriche di onesta solitudine sentimentale, che è la colonna di ogni serio songwiting quando hai vent'anni. 
Quando l'hanno incisa per davvero in uno studiolo dietro casa (niente più che un'altra cameretta, in verità!) - destinata a diventare il 7" numerato 012 della Sarah Records - non hanno aggiunto nulla. La canzone c'era già. Ed era, nella sua gentile cristallina sincerità, nel suo inesorabile sovrapporsi di chitarre, nei suoi versi che sfiorano l'autocommiserazione ma si fermano sulla soglia e vanno incontro all'alba, un capolavoro.



lunedì 16 marzo 2020

(498) Magnetic Fields - All My Little Words

Album: 69 Love Songs
Anno: 1999




Tempo fa qualcuno chiese a Molly Rankin quali fossero i suoi modelli di songwriting. Il primo nome che fece fu quello di Stephin Merritt. Il che, se ci pensiamo, sarebbe una risposta saggia e sensata per chiunque scriva canzoni.

Credo che molti di voi abbiano avuto tra le mani quell'oggetto buffamente ingombrante che è "69 Love Songs" dei Magnetic Fields, la band di Stephin Merritt: folle concept album triplo che conteneva, per l'appunto, 69 canzoni d'amore, giustapponendo generi in modo programmaticamente onnivoro e mantenendo un livello di scrittura miracoloso che variava tra il geniale e l'eccellenza pura. Ma era un oggetto difficile da gestire, "69 Love Songs", in cui quasi tutti hanno dovuto tracciare propri percorsi personali d'ascolto. All'epoca ne ricavai un paio di personali best of, cercando di rimettere a posto il quadro dei generi e seguendo ovviamente i miei gusti personali. 
Fra le 69 canzoni d'amore quella a cui sono più affezionato è senz'altro All My Little Words, che è una piccola preziosa ballata folksy (come ce ne sono molte nel disco), dove alla voce da crooner gentile di LD Beghtol è affidata la disincantata sorridente commovente narrazione di un amore che non si potrebbe mai realizzare not for all the tea in China, not if could sing like a bird, not for all North Carolina, not for all my little words, not if i could write for you the sweetest song you ever heard... Come se non fosse proprio questa la "canzone più dolce che tu abbia mai ascoltato"...  

giovedì 12 marzo 2020

(499) Alvvays - Archie, Marry Me

Album: Alvvays
Anno: 2014


Esisterebbero gli Alvvays senza i semi gettati qualche anno prima dai Pains Of Beeing Pure At Heart? Sì, probabilmente, anche se è naturale pensare che la band di Toronto sia l'erede al trono designata di Kip Berman e soci. L'attitudine è la stessa e gli stessi sono i modelli di riferimento.
Quando uscì Alvvays, l'album d'esordio, il gruppo capitanato da Molly Rankin sembrava avere già le idee perfettamente chiare e Marry Me, Archie, con la sua virgola d'ordinanza, le sue chitarre jangly e il suo geniale ritornello "Ehy Ehy", è subito apparso per quello che è: la perfect pop song che tante band inseguono per una carriera e che questi ventenni canadesi hanno infilato subito senza colpo ferire. 
C'è qualcosa di profondamente letterario, quando Molly canta so honey take me by the hands and we can sign some papers, in uno dei passaggi più miracolosamente e semplicemente dinamici della storia del guitar pop. Memorie di timido ribellismo vissuto forse in un film degli anni Sessanta visto alla tv via cavo. E un lessico che suona da romanzo ma è infilato in una canzone deliberatamente pop con un'ironia straniante.
Perchè gli Alvvays erano e sono così: popolar-intellettuali un po' come i Belle & Sebastian ma capaci di essere catchy fino alla morte come i Teenage Fanclub ed eleganti come i Camera Obscura (ehy, c'è un gemellaggio in corso fra Toronto e Glasgow!). 
E comunque Archie, chiunque tu sia, che cosa aspetti a dire di sì: Marry me, Molly! Te lo diciamo tutti in coro, noi che ci siamo innamorati di questa ragazza cresciuta nell'idilliaca Isola Prince Edward. E te lo dice pure quella vecchia volpe di Ben Gibbard, che di canzoni ne sa qualcosa.