mercoledì 15 aprile 2020

(494) Guided By Voices - Game Of Pricks

Anno: 1995
 Album: Alien Lanes



Poche band sono state capaci di essere geniali e insopportabili come i Guided By Voices. Fin da quando Robert Pollard e compagni hanno mosso i primi passi a Dayton in Ohio, intorno alla metà degli anni Ottanta, hanno costruito uno stile personale che si evidenziava per la brevità quasi insolente e più che punk delle canzoni ed era esplosivo soprattutto dal vivo.
Nessuno dei cinque Guided By Voices avea doti da virtuoso, anzi, e l'unico che poteva spiccare davvero era il guascone e talentuoso leader Pollard, autore della quasi totalità dei pezzi e protagonista sul palco di spacconate alcoliche e roteamenti di microfono che neanche Roger Daltrey ai tempi d'oro. Gli altri - il chitarrista Mitch Mitchell su tutti, mai visto suonare senza una sigaretta a penzolare dalle labbra - stavano sullo sfondo con ritmiche semplici e i distorsori ben aperti. 
Alien Lanes è il tipico album dei GBV: 28 canzoni, metà delle quali sono poco più che mozziconi, registrate con un budget di una decina di dollari (escluse le birre, hanno raccontato quelli della Matador, che aveva il coraggio di pubblicarli), piene di rumori di fondo ed errori voluti ed esibiti, a tratti (istanti, considerando che oltre il minuto raramente la band si dilungava) di pura folle bellezza, ricche di memorie (dal surf all'hard rock, dai Big Star ai REM, dai Joy Division ai Pixies) stratificate l'una sull'altra in quel disordinato magazzino che era il songwriting di Pollard.
Più o meno a metà c'è anche Game Of Pricks, che è uno di quei preziosi momenti in cui nell'obliquo sferragliare dei GBV sembra che ogni elemento disturbante sia messo a tacere ed emerga invece la essenziale forza vitale delle loro esibizioni live. Qui la scrittura di Robert Pollard è realmente al suo meglio e la semplicità formidabile del guitar pop da garage di periferia della band è talmente cristallina e pregnante nella sua imperfezione da avere modellato, con i suoi pochi accordi e la sua onesta circolarità, decine di gruppi indie che hanno popolato i Novanta.

lunedì 6 aprile 2020

(495) The New Pornographers - The Bleeding Heart Show

Anno: 2005
Album: Twin Cinema



Creatura strana i New Pornographers. Amati e odiati parimenti dalla critica. Quasi sempre ignorati dal pubblico, pur meritando una attenzione almeno tripla rispetto a quella che hanno ottenuto nella loro lunga carriera. "La" band (una della band in verità) di quel geniale songwriter che è AC Newman. O piuttosto un specie di comune con Newman al centro, una serie di formidabili musicisti attorno, e la personalità vocale di Neko Case a dare una dimensione defintia ad un progetto che ha sempre avuto confini poco certi. 
I puristi dell'indie li hanno sempre definiti power pop. I puristi del power pop hanno sempre dichiarato che non lo erano, qualsiasi cosa sia il power pop. E poi Neko Case è una cantante alt-country. E in fondo gli album dei canadesi sono sempre stati come quella vasca di legno che conteneva i cd in offerta nei vecchi negozi di dischi: potevi tirare su letteralmente di tutto.
Bene. The Bleeding Heart Show rappresenta il frullatore dei New Pornographers alla massima potenza possibile. C'è alla base una ballad essenzialmente folk e sostanzialmente mesta, voce (di Newman) acustica pianoforte, che ciondola tra un misto di cupa serietà e di energia trattenuta per più di un minuto. Poi è come una porta che si apre lentamente mentre gli strumenti entrano poco alla volta: la batteria, risoluta, dei synth discreti, un accordion che ondeggia una melodia quasi straniante,  e la voce di Neko che accende la luce nella stanza... Poi, da 2:10, uno dei crescendo più straordinari della storia del rock. Una specie di polifonia semplice e inesorabile, con delle memorie africane (possibile? sì, siamo in casa Ac Newman) e un impianto country (possibile? sì, siamo in mano ai poteri vocali prodigiosi di Neko Case). Con la batteria di Kurt Dahle che rimbalza geometrica da una parte all'altra e spinge l'intera band in un'accelerazione a perdifiato. Tanto che si dimentica tutto: che siamo dentro una canzone su una relazione finita, che siamo davanti a un gruppo indie rock o power pop o quel che è, che prima o poi la porta si deve richiudere e la luce si deve spegnere. The Bleeding Heart Show, signore e signori...

venerdì 3 aprile 2020

(496) Belle and Sebastian - A Century Of Fakers

Anno: 1997
EP: 3 6 9 Seconds Of Light





A Century Of Fakers non è la canzone più memorabile dei Belle & Sebastian. Eppure capita che ci siano canzoni che oggettivamente non siano gran chè e che soggettivamente ti smuovano qualcosa dentro.
Nel 1997 la band di Stuart Murdoch aveva già all'attivo due album - il seminale, programmaticamente naif Tigermilk, e il più rifinito If You're Feeling Sinister.  Poco convinto della produzione troppo precisa dell'ultimo lavoro, Murdoch aveva optato per un ritorno alle origini e decretato che tutto quello che avrebbe registrato in quell'anno avrebbe avuto un suono quanto più possibile live. Per farlo, è cosa arcinota nela biografia dei B&S, l'intero gruppo si era trasferito armi e bagagli in una chiesa sconsacrata della natia Glasgow e lì erano nati tre EP usciti di seguito. 
A Century Of Fakers è il pezzo apripista dell'ultimo EP, uscito appena prima dell'album capolavoro, The Boy With The Arab Strap, che era già in gestazione in quel torno di mesi. Mesi evidentemente in cui il gruppo stava davvero ingranando, non tanto a livello di popolarità, quanto proprio a livello musicale, trovando a poco a poco una convergenza miracolosa tra la spontaneità twee degli esordi e un songwriting più eclettico e rotondo.
In tutto il processo di crescita della band, A Century Of Fakers non suona certo come il prezioso anello mancante: è una canzone "prima maniera" concepita in un momento in cui la "prima maniera" ormai era stata un po' lasciata indietro. La melodia è splendida, certo, e gentilmente atemporale come ogni frutto della penna di Murdoch in quegli anni. Le liriche sono stralunate, impenetrabili e geniali come sempre, con questi squarci di umanesimo tra l'evangelico e il socialista. La partitura poi è quella dei B&S dei tempi d'oro, sapientemente sulla soglia della stonatura, con le pigre chitarre jangly, il violino e il violoncello a punteggiare, la voce (qui) un po' piatta di Murdoch che viene impreziosita dai cori di Stevie Jackson e Isobel Campbell. 
Già, Isobel Campbell. Che in questo video, che all'epoca passò forse un paio di volte a notte fonda su MTV - l'indie del 1997 non contemplava l'assenza totale di spigoli e la malinconica nostalgia della band di Glasgow - si aggira luminosa e angelica in una rappresentazione post post nouvelle vague che è un po' il manifesto visivo dei B&S. Isobel Campbell è stata la chiave di volta della band. Quando se n'è andata, nulla è stato più lo stesso. E un po' a A Century Of Fakers mi pare che racconti proprio questo: un momento di grazia, il gruppo nella sua perfezione (li vedete comparire tutti insieme a 3:53, per un attimo), una di quelle foto di famiglia leggermente ingiallite dal tempo che hanno il potere di spalancare mondi.